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venerdì 18 gennaio 2013

Il teatrino mentale del moscone politico

Un moscone, chiuso in una stanza, per cercare di uscire continua a sbattere contro il vetro della finestra. Aprirgli la finestra qualora fosse chiusa per agevolarlo a uscire, si rivelerebbero uno sforzo inutile. Il moscone continuerà imperterrito a dare testate nel vetro. Il moscone, nella sua elementarità, non possiede una mente. Difetta della capacità di immaginare, ovvero di prefigurare scenari differenti. Non arriva a comprendere che la via per ottenere lo spazio libero e luminoso all’aperto, consiste proprio nell’allontanarsi temporaneamente da quella luce. Il moscone è privo di una capacità neuronale soprannominata “teatro mentale”: non sa “prefigurare”, riesce soltanto a interpretare se stesso mentre continua a sbattere contro il vetro. La sua cecità immaginifica è la sua condanna. Vede solo ciò che è, la situazione tale e quale. E persevera incapace di far tesoro della memoria, incapace di immaginare un nuovo scenario futuro.

Animali più evoluti, come gatti, cani, mammiferi e uccelli in genere, possiedono invece la capacità di immaginare. Anche l’ape, in condizioni di relativa tranquillità, è in grado di risolvere il problema. Anche l’homo oniricus sa immaginare. A volte il pertugio per volare incontro alla realizzazione dei propri sogni non riesce a trovarlo, magari perché non esiste proprio. Comunque, l’uomo immaginifico riesce a sognare soluzioni. Non è colpa sua se le soluzioni sono in ritardo sulla sua fantastica immaginazione. L’uomo che immagina uno scenario differente: questa è l’unica condizione per non continuare a dare testate in eterno nel muro dell’idiozia.

Che si può dire invece dell’homo politicus?
L’uomo politico dovrebbe, quand’è candidato a gestire la sorte di altri uomini, possedere in sommo grado la capacità di sognare, di immaginare futuri scenari d’ampio respiro, dovrebbe essere quasi istintivo in lui, come il dono di un’abilità innata e animalesca, il talento di erigere stupendi “teatri mentali”. Si verifica invece l’esatto contrario. L’attuale campagna elettorale ne è l’ennesima dimostrazione.

Una società che vuole davvero rinnovarsi, deve cambiare nei propri “fondamentali”, ha bisogno di menti maestose, capaci di prefigurare scenari d’opera lirica, epica. Menti al massimo grado coraggiose, capaci di sostenere e difendere tali architetture di società civilizzate. Una nuova idea dell’esistere quotidiano, un nuovo progetto per la simbiosi tra umano, ambiente e qualità della vita, un’impalcatura solida per edificare il lavoro e il capitale come strumenti e non come fini, un maestoso concetto di giustizia sociale e di abbattimento delle diseguaglianze economiche su scala planetaria, transcontinentale (uscendo dagli angusti confini di “benestante” e “malestante” riferiti a chi risiede sopra o sotto un fiume, al di qua o al di là della strada: l’approccio è fallimentare in sé), un piano ambizioso dove non trovino più posto le solite testate nel vetro.

Questo “teatro del mondo”, questo arazzo sociale deve essere volutamente campato in aria, fortemente ancorato alle nuvole, perché ora soltanto l’utopia allo stato puro può essere considerata sufficientemente distante dallo squallore del reale, quindi ad esso credibile alternativa. Immaginare una società nuova, talmente diversa dalla miseria attuale da esserle stupendamente estranea, è compito primario di un vero homo politicus. Soltanto così il cambiamento è incisivo al punto da potersi definire mentalmente rivoluzionario.

Ciò oggi non accade, la parola “rivoluzione” è sulla bocca di mosconi che sbattono la testa contro il vetro della solita, avvilente commedia del potere. Non c'è un solo politico che compia il salto di qualità, che sappia librarsi oltre la prigione di vetro dell’interesse di casta, non uno che proponga una visione ambiziosa, che prospetti un futuro difficile da realizzare, impresa ben più difficile dell’uscire dalla congiuntura di una crisi economica. Nessuno che formuli e sostenga un cambiamento strutturale, dentro il quale ricomporre ogni giuntura altrimenti lussata e scollegata per sempre. E fregandosene finalmente di doverci sempre ridurre a mendicare un modello francese, un modello tedesco, un modello fiammingo, un modello canadese, un modello maori, un modello uzbeco.
Osare, osare una inesplorata via che possa poi essere una risorsa, un modello per gli altri, se ne saranno all’altezza. Questo dovremmo osare.

Invece la politica continua a recitare a soggetto, ad personam o ad castam, a tornaconto immediato di voti da raccattare, come mentecatti dell’esistenza, preoccupati a non lasciarsi sfuggire una frase, un pensiero, un’idea che possano risultare sconvenienti a soddisfare l’ambizione di potere, incapaci di uscire dalla stitichezza di campare alla giornata di espedienti e promesse elettorali.
Una tale razza di cervelli asfittici privi di mente, come dei mosconi, può soltanto generare società a propria somiglianza e mancanza d’immaginazione; società dove le persone campano, o crepano, tirando avanti alla giornata. Esistenze mediocri in balia di persone mediocri.

Questa campagna politica è praticamente tutta incentrata sulla squallida banalità della tassa dell’IMU. Non si discute d’altro, non c’è una sola boccata d’ossigeno. Il problema non sarà mai risolto poiché per risolverlo occorre prendere le distanze dalla magagna particolare e, come aquile, librarsi su una visione più alta del teatro del mondo. Che noi sia fatta soltanto di parlar di tasse e di soldi con promesse usa e getta. Che non sia soltanto noia collaudata e riciclata. Che sia fatta invece di un’Idea di come vorreste cambiare il mondo a tutto tondo. Chi ci crede mi voti, al diavolo gli altri. Ma i capponi non possono farsi aquile.

I nostri mosconi politici, a differenza dell’insetto, non hanno l’alibi della cecità immaginifica. Se degli umani non escono dalla comoda pantomima del teatrino del battibecco politico, è perché nessuno li obbliga a schiodarsi. A differenza dell’insetto, il moscone politico non è sciagura soltanto a se stesso: condanna a un’esistenza misera e dalle prospettive limitate tutti gli esemplari della specie che stanno con lui da questa parte del vetro; comprese le future generazioni.

Non c’è un solo politico capace di eccitarmi, con discorsi “sconvenienti”, contrari a ogni buon senso di immediato tornaconto, non ce n’è uno che abbia il coraggio di sostenere un teatro dell’assurdo con l’incoscienza di un progetto di cambiamento da perseguire negli anni e non nei primi cento giorni delle solite balle propagandistiche, non c’è una sola proposta che non sia fradicia del sudore puzzolente della paura di dire qualcosa che metta a repentaglio una manciata di voti, non sento una sola voce che dica “Non so che farmene del tuo voto, votami soltanto se condividi ciò che ho disegnato.”, magari ridendomi in faccia un bel “Le mie idee, i miei progetti, i miei sogni, le scenografie teatrali che ho in mente non le baratto in cambio del tuo voto!”.

Siccome non ce n’è uno che parli liberamente, senza il terrore di dire qualcosa che gli faccia perdere il mio voto, proprio per questo nessuno di questi politici dimostra sufficiente coraggio per meritarsi il mio voto.

Non votare è, in questo teatrino farsesco, l’unico gesto serio, di costruttiva utopia futura. Molto più serio del vano sforzo da automa di continuare ad aprire la finestra a mosconi che non sanno uscire. Che non vogliono saperne di uscire dal tran tran del loro confortevole campare. I mosconi, fregandosi le ali, se la ridono di chi si affanna ad aprir loro le finestre, col voto, nella speranza che arrivi l’aria del cambiamento. Può entrare tutta l’aria di buoni propositi verbali. Nei fatti, i mosconi della nostra politica continuano a recitare l’unica parte che sanno far bene: sbattere inesorabili la testa contro il muro dov'è ingabbiata l'immaginazione.
E noi con loro.

K.

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