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venerdì 11 maggio 2012

A quando una marcia pro Maria?

Nel video che, con voce maschile teatralmente carica di pathos, invita a partecipare alla Marcia Nazionale per la Vita, in programma a Roma domenica 13 maggio, non stupisce l’avversione all’aborto. Che un movimento d’opinione d’ispirazione cattolica sia contrario all’aborto, è nell’ordine divino del Creato.
Indigna invece l’arroganza offensiva di chi, dall’alto della Verità, invita a “marciare per la vita”, puntando contro la donna un dito inquisitore e accusatore, noncurante del travaglio certo di un individuo in essere, realizzato e formato, di certo già in vita.
L’aborto, senza distinzioni, spontaneo o provocato che sia, suppongo sia sempre un’esperienza dolorosa. Abortire una prospettiva, una ipotesi di vita è un dramma psicologico. È dramma umano preciso di una donna. Una donna che è, prima che di una madre che potrebbe essere, sofferenza di persona che è, non di futuribile eventuale che sarà.

L’aborto è dramma femminile. Prima che dramma, è questione femminile. Prima ancora è faccenda che riguarda la singola donna, con un nome, un cognome, un’emotività, un’esperienza di vita da tutelare prima di milioni di ipotetici bambini presunte vittime immolate sull’altare pagano del dio aborto. L’aborto è una scelta (probabilmente sofferta e drammatica) compiuta da una donna plasmata in carne e ossa, sorrisi e lacrime (non in fuoco e spirito santo).

Brutto atteggiamento ipocrita è quello di chi, preoccupandosi soltanto di un astratto diritto sacro alla vita (magari in odore di “dovere di gravidanza”), calpesta la dignità di molte donne, marchiandole come artefici di “orrendo crimine”. E trattando coloro a favore della legge 194 del 1978 alla stregua di un’allegra accozzaglia di delinquenti dediti al genocidio.

Chi è “contro l’aborto” non è “pro life”: è “contro la libertà di scelta”.
E dall’altra parte non ci sono individui “a favore dell’aborto”, invasati che incitano ad abortire. Ci sono esseri umani che vogliono garantire alla donna il diritto di poter scegliere: se abortire o se non abortire.
La legge 194 del 1978 ha reso legale nel nostro paese l’interruzione volontaria di gravidanza. È una legge che ha garantito l’esercizio di un diritto, non l’obbligo di una imposizione. Avere il diritto di abortire non significa averne il dovere. Capisco sia una distinzione difficile da cogliere per una Chiesa che vorrebbe imporre il dovere di non abortire, il divieto di poter scegliere.

È bello poter scegliere in libertà di coscienza e conoscenza, anche in libertà umana di dramma e dolore, senza comandamenti di spirito santo e sacralità di dogmi.
È auspicabile poter pensare che per alcuni esseri umani Karol Wojtyla sia il beato successore di Pietro, per altri esseri umani semplicemente un uomo polacco al vertice di un’organizzazione terrena alla quale non riconoscono alcuna autorità morale.
È emblematico notare che è una melodrammatica voce maschile a esporre una questione che, nel cruciale atto di decidere, è tutta al femminile. Magari in certi ambienti è millenaria la convinzione che la femmina è nelle scelte subordinata al maschio, il quale decide come e quando debba procreare, obbediente ancella sottomessa alle leggi del grande sacerdote del tempio.

A chi pensa di ergersi a paladino della Vita, intraprendendo la crociata “pro life”, rivolgo una domanda. A quando una crociata pro Maria?
Non la Maria madre che reca in grembo il figlio di un Dio che non copula, no. A quando una manifestazione a favore dei diritti di Maria donna, di Monica, Francesca, Gabriella, Simona, Margherita, Valeria?
Una Maria che, come ogni donna singolarmente, da maschietto posso solo pensare non viva mai l’esperienza di un aborto dando una festa o assumendo il Mifepristone come fosse una Zigulì.

Resta comunque una faccenda intima, un diritto di scelta personale di Maria, Monica, Francesca, Gabriella, Simona, Margherita, Valeria, ecc.
Le cui vite esistenti meriterebbero rispetto.
Come le loro scelte, spesso sofferte.

K.

pubblicato su Cronache Laiche

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