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sabato 5 novembre 2011

Parole che vestono alla moda

La parola è l’ingrediente base di ogni comunicazione scritta.
E va dosata, in funzione del piatto che si vuole servire al lettore.

Nella comunicazione giornalistica, la regola madre dovrebbe essere: informare con chiarezza e completezza.

È un compito che richiede disciplina.
In una lettera, Blaise Pascal, scienziato e filosofo francese del Seicento, scrisse: “Ho fatto questa lettera più lunga solo perché non ho avuto tempo di farla più corta.”
Sbragarsi in sproloqui richiede tempo e quantità d’inchiostro.
Scrivere un buon pezzo, richiede competenza e qualità d’ingegno.

Purtroppo, si prende spesso la comoda scorciatoia di esaltare brevità e sintesi.
Che non bastano a fare informazione e giornalismo di qualità.

Il giornalista americano Michael Kinsley afferma che la lunghezza dei testi scritti è “uno dei motivi per cui le persone abbandonano i giornali per internet: l’informazione online va dritta al punto.”

Io in questa frase ci sento più puzza di marketing, che odore di rotative.

Il titolista è una figura redazionale che crea titoli a effetto, per catturare l’attenzione del lettore.
Oggi si corre il rischio di soddisfare quell’attenzione riducendo a “titolismo” twitteriano l’intero contenuto di testo.

Una buona informazione dovrebbe essere la migliore pubblicità di sé stessa.
L’advertising purtroppo rischia di avere un effetto virale sulla news stessa.

È ormai di uso abituale quel concentrato di dado (o di dato?) informativo, chiamato Twitter.

Se, invece dell’offrire un prodotto di informazione al lettore, il fine ultimo diventa di usare l’informazione come mezzo per fidelizzare il cliente, il giornalista, foss’anche un pubblicista, scade al ruolo di pubblicitario.

E non è detto che un pubblicitario si preoccupi che il “cliente”, con un ulteriore clic, evolva allo status di “lettore” dell’articolo.

Il punto al quale l’informazione deve andare dritta, qual è?!
Stare attenta a non molestare i cervelli, evitando emicranie di riflessione?
Tenersi al riparo dal pericolo di diaspore di lettori insofferenti alla fatica di inerpicarsi fino a un nuovo punto di vista?

Gli aforismi folgoranti di Spinoza, le Cattiverie concentrate nel fondo pagina del Fatto Quotidiano, i 140 caratteri twitter, sono brevi sintesi d’abilità satirica.
Lasciati soli, non informano, bensì impongono soporiferi calembour di pseudo-cronaca per clienti pasticcati, assuefatti e appagati.

Brevità e prolissità sono abiti che vestono male. Entrambi.

La prolissità rischia di nascondere i passaggi logici e i fatti salienti sotto i risvolti della stoffa in eccesso.
La brevità permette di operare tagli di convenienza, consentendo una specie di “censura bianca”: alla luce del sole e senza dare scandalo.

Fase analitica e fase sintetica, poi, sono due facce della stessa medaglia: di solito, ruotano assieme.

Chi esalta brevità e sintesi, spesso (e non malvolentieri) sacrifica l'analisi e la compiutezza di ragionamento sull'altare delle visualizzazioni di pagina.

A me spaventa non poco l'espediente di City freepress di mettere nell'header le emoticon-faccine a fare il sommario emozionale delle notizie del giorno.
Evidentemente puntano a un lettore da messaggistica istantanea, a una clientela demente e cinica che apprezza la faccina triste per segnalare le vittime di un terremoto o di un'alluvione.

Fate in modo che leggano solo gli oroscopi e gettino via il giornale; avrete così il vostro innocuo serbatoio (e)lettorale, mondato da ogni istanza di approfondimento critico.

Niente analisi, niente dubbi.

Non fornitegli strumenti per farsi un'opinione, somministrategliela già pronta per l'ingoio.
In pillole.

Esiste per fortuna una parolina magica che concilia brevità e prolissità, analisi e sintesi, le concilia e le supera.

Questa parola è: Essenzialità.
L’essenziale è che chi fa giornalismo ne sia consapevole.

Il cliente di un bravo giornalista non è il lettore, ma il dovere di informarlo, senza troppi tatticismi commerciali.

L’essenzialità calza a pennello sulle parole, e i giornalisti dovrebbero essere indifferenti alla moda del momento.

Perché le mode passano, l’eleganza deontologica resta.

Questo è il punto.
Il punto essenziale.

K.

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